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Nora: una storia di perdono

Di Enrico Buongiovanni


Era una giornata come tante, ma sapevo che quella seduta di meditazione sarebbe stata diversa. 

Di fronte a me c’era una giovane donna americana, Nora, il cui viso portava i segni di una lunga battaglia interiore. 

Non era la prima volta che partecipava a una mia sessione di meditazione, ma quel giorno era evidente che c’era qualcosa di più profondo che doveva emergere. 

Sentivo che il suo cuore era pesante, intrappolato tra vecchie ferite e un dolore che non aveva ancora trovato pace.

Abbiamo iniziato la sessione con una meditazione guidata, focalizzata sull’abbracciare le parti più fragili di sé stessi, quelle che tendiamo a nascondere o a soffocare per paura di affrontarle. 

La sua voce, quando parlava, tradiva una vulnerabilità che forse nemmeno lei aveva ancora completamente esplorato. Nel suo racconto iniziale, prima di cominciare, c’era una storia di conflitti familiari, incomprensioni e tanto dolore. 

I suoi genitori erano alcolisti, e per anni lei aveva cercato di tenere tutto insieme, di essere forte, di proteggere quella parte di sé che si sentiva ferita, dimenticata, e trascurata.

Le ho chiesto di lasciare andare l’idea di dover essere forte a tutti i costi, e di permettersi di sentire. 

L’ho invitata a tornare in contatto con quella bambina dentro di lei, quella che aveva sofferto, quella che era stata esposta a situazioni che non avrebbe mai dovuto affrontare, e che, nonostante tutto, era ancora lì, dentro di lei.

Nel silenzio della meditazione le sue espressioni cambiavano, il suo respiro diventava più profondo, quasi a voler rilasciare anni di tensione trattenuta. 

Le ho chiesto di immaginare quella parte fragile come una persona davanti a lei, una versione di sé stessa che aveva bisogno di essere accolta, accettata, e amata, proprio come farebbe una madre con il proprio bambino.

E poi, le ho chiesto di perdonare. 

Non per dimenticare, ma per liberare se stessa. 

Ho parlato di come il perdono non significhi giustificare il dolore, ma rifiutare di lasciare che quel dolore continui a governare la tua vita. 

Le ho chiesto di pensare ai suoi genitori non come i mostri che l’avevano ferita, ma come persone spezzate a loro volta, persone che avevano fallito, ma che forse, in fondo, stavano cercando di fare del loro meglio, anche se quel “meglio” non era abbastanza.

Il tempo sembrava essersi fermato mentre la guidavo attraverso questo processo. 

Quando la meditazione terminò, ci fu un lungo silenzio. 

Sentivo che aveva attraversato una tempesta emotiva, ma c’era anche una nuova calma nei suoi occhi, come se avesse trovato qualcosa che aveva cercato per molto tempo. 

Non mi aspettavo parole immediate, e infatti, la prima cosa che fece fu semplicemente respirare profondamente, come se stesse lasciando andare un peso che aveva portato troppo a lungo.

Alla fine, con la voce leggermente tremante, mi disse che per la prima volta era riuscita a perdonare i suoi genitori. Non era un perdono razionale o forzato, ma un atto di amore verso sé stessa. Riconosceva il loro fallimento, ma allo stesso tempo aveva smesso di portare il fardello della loro sofferenza. 

Si era riappropriata della sua parte fragile, quella che per tanto tempo aveva cercato di nascondere, e proprio in quel gesto di accettazione aveva trovato la forza di perdonare.

Quella seduta non fu solo un momento di guarigione per lei, ma un potente promemoria per me su quanto sia importante ascoltare e accogliere le nostre ferite. 

A volte, siamo così impegnati a difenderci dalle sofferenze passate che ci dimentichiamo di quanto sia liberatorio smettere di combattere e semplicemente accogliere, con amore e compassione, le parti di noi che più hanno bisogno di essere viste.

La sua storia, e quel perdono, sono una testimonianza del potere della meditazione e del contatto con sé stessi. È un processo che richiede tempo e gentilezza, ma che, quando avviene, ha il potere di trasformare anche le ferite più profonde in pace e guarigione.